Nell’ambito del processo che riguarda il rapimento e l’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano assassinato in Egitto nel 2016, emergono nuove dichiarazioni significative. Alberto Manenti, ex direttore dell’Aise, è stato ascoltato come testimone dalla Prima Corte di Assise di Roma e ha chiarito la posizione di Regeni rispetto ai servizi segreti italiani ed esteri. Le sue parole pongono l’accento su una questione cruciale: la mancanza di collegamenti tra il giovane ricercatore e le agenzie di intelligence.
Manenti smentisce i legami dei servizi segreti italiani
Durante la sua testimonianza, Alberto Manenti ha categoricamente escluso la possibilità che Giulio Regeni fosse un agente dei servizi segreti italiani. “Nella struttura non lo conosceva nessuno,” ha affermato. Manenti ha anche riferito di aver condotto un’indagine informale in merito, contattando i servizi segreti britannici, ovvero l’MI6, per verificare se Regeni fosse riconducibile a loro. La risposta ricevuta ha confermato l’assenza di collegamenti: “Non era una loro risorsa,” ha riportato l’ex direttore. Questa affermazione è significativa, signifying che la figura di Regeni non era associata ad operazioni di spionaggio o missioni governative, ma si presentava piuttosto come un ricercatore colpito dagli eventi tragici che lo hanno portato alla morte.
Il muro di gomma degli egiziani e la scomparsa di Regeni
Manenti ha descritto il clima di incertezza e le difficoltà nell’ottenere informazioni dai funzionari egiziani dopo la scomparsa di Regeni. “Ci siamo trovati di fronte a un muro di gomma da parte degli egiziani,” ha commentato, mettendo in evidenza la reticenza con la quale il governo egiziano ha trattato il caso. Negli immediati giorni dopo la scomparsa del ricercatore, Manenti ha notato come parecchi elementi indicasse una situazione di fermo non ufficiale. Questa pratica è nota per essere impiegata in Egitto, spesso sia per straniere che per cittadini locali, svolgendo un ruolo cruciale nella gestione delle scomparse di individui, principalmente quando emergono circostanze sospette.
Altro aspetto degno di nota è che già nella fase iniziale delle indagini, il capo dei servizi segreti egiziani, il Gis, aveva comunicato con il suo omologo italiano riguardo le ferite riscontrate sul corpo di Regeni. “Il Gis comunicò al suo omologo in Italia sulla base del cranio di Regeni,” ha detto Manenti, rilevando come tali informazioni fossero già disponibili, sebbene la conferma ufficiale delle ferite sarebbe giunta solo dieci giorni più tardi, dopo l’autopsia eseguita in Italia. Questo ritardo ha sollevato ulteriori domande sulla trasparenza e sulla cooperazione tra i due paesi nella gestione di un caso così delicato.
La comunicazione critica tra servizi segreti e investigatori
Un altro punto importante emerso durante la testimonianza riguarda la comunicazione tra Manenti e il capo del Gis. All’indomani del ritrovamento del corpo di Regeni, Manenti è stato informato direttamente dall’agente egiziano riguardo ai traumi subiti. “Mi trovavo in albergo al Cairo quando ho ricevuto la notizia della scoperta del corpo,” ha riferito, descrivendo il momento in cui è stato avvisato. Molto rapidamente, Manenti ha contattato il capo del Gis, il quale ha riferito di traumi e segni evidenti sulla vittima. Manenti, in quel frangente, ha ipotizzato “un colpo ricevuto da un corpo contundente,” giungendo a intuire il ritorno imminente di un episodio violento e brutale.
Le affermazioni di Manenti, come ex funzionario di alto livello, offrono una luce diversa su come la questione Regeni sia stata gestita a livello internazionale. La testimonianza enfatizza le dinamiche complesse e spesso conflittuali tra i servizi intelligenti di diversi paesi quando si tratta di affrontare casi di grave violenza e violazione dei diritti umani come quello di Regeni. La mancanza di trasparenza e l’impegno iniziale da parte delle autorità egiziane nel rispondere alle richieste di informazioni solleva interrogativi cruciali sulla responsabilità e sull’operato delle istituzioni coinvolte.